Di Daniela Falconi

Luglio 2019 – Quando ricevetti la notizia di poter visitare la Repubblica Popolare Democratica di Corea, non potevo quasi crederci. Si concretizzava difatti la possibilità di mettere piede in un Paese estremamente vessato dall’Occidente ed eretto ad esempio di terra impermeabile, pericolosa e priva di qualsiasi forma di libertà. Un luogo in cui ci si aspetta di scorgere militari armati ovunque, di non poter chiedere e di non avere possibilità di scattare fotografie… eppure sono tornata con un bagaglio di ben 430 scatti spostandomi anche in libertà per la capitale.

Nel corso del soggiorno, furono diversi gli aspetti che mi colpirono. Un dei primi fu sicuramente l’impatto visivo con la città e le periferie di Pyongyang. Dapprima mi sorprese la massiccia presenza della natura all’interno della stessa capitale, tanto curata da apparire quasi finta: non volendo esagerare, osservando la città dalla finestra della mia stanza d’albergo, ebbi davvero l’impressione di avere sotto gli occhi un modellino urbano perfettamente assettato.

Abituata al caos, al movimento frenetico della gente, alle pubblicità sfacciate che ci vengono scaraventate addosso, il traffico corpulento e al rumore di molte città occidentali a cui sono abituata, piombare in quella città tranquilla e ordinata mi parve quasi un’esperienza surreale. Al visitatore si presenta difatti uno scenario che spazia armonicamente da moderni grattacieli architettonicamente dettagliati a palazzi più umili.  In questa differenza, presente tra periferia e città, riscontrai molta umiltà nel popolo coreano che ha ammesso l’esistenza di queste discrepanze, spiegando di essere nel pieno di un programma che le vuole appianare ma nel rispetto delle peculiarità di ogni regione. Con ciò non si deve credere che le periferie siano delle zone dismesse e trascurate, bensì più modeste. Basti pensare che vi sono interi quartieri discosti in cui ad ogni balcone è esposto un pannello fotovoltaico. Sempre in periferia, la natura è rigogliosa e per molti scenari mi ha ricordato quella svizzera.

Sebbene solo nel centro di Pyongyang siano presenti grandi centri sportivi di ogni sorta, gli spazi comuni sono valorizzati in tutta la Corea, poiché il popolo coreano attribuisce grande importanza alla collettività e alla partecipazione per il benessere comune. In tal senso, sia che una persona abiti in periferia o nel centro di Pyongyang, questa ha diritto di soddisfare i propri bisogni fondamentali. Ogni individuo ha infatti diritto ad un alloggio, allo studio e alla salute, che sono offerti dallo Stato. Con tutte le pecche del caso, questo sistema permette a chiunque di potersi realizzare nello studio che più gli si addice, garantisce di potersi curare e di avere un tetto sopra la testa senza doversi confrontare con i limiti dell’argent de poche. Cosa che invece non avviene alle nostre latitudini. Alla Corea va quindi riconosciuto il grande investimento nella formazione e nella salute del proprio popolo. Oltre più, questo spirito comunitario non si limita ai confini della Repubblica, ma sfocia anche nella retorica relativa alla confinante Corea del Sud.  Di fatto, non ho mai sentito parlare delle “due Coree”, ma di Corea. Nei vari musei e scuole visitate, la Corea è sempre stata rappresentata come unita. In tutto questo i coreani ci hanno espresso anche il desiderio di potersi sviluppare nella loro cultura senza che potenze straniere impongano concezioni che non gli appartengono.

In conclusione, la Corea del Nord non è di certo un Paese di facile comprensione agli occhi di un occidentale. Si colloca in equilibrio su un filo controverso di pensieri che spesso scordano di considerare il blocco economico che pende sulla testa di questo Paese, come pure la capacità di scindere la falsa propaganda dalla verità. Credo però che, superato questo intoppo mentale, la Corea sia un Paese da cui si possa assimilare molto, che permette di tornare a casa con una capacità di riflessione più profonda e una coscienza maggiore della realtà internazionale. Tanto per cominciare, ad esempio, interrogandosi sulla smania che noi persone abbiamo di esportare il nostro modello di vita in tutto il mondo, criticando a spada tratta quello degli altri, ma senza la reale volontà di comprendere le differenze.